Non scherziamo, mentre siamo ancora qui a rivendicare il ruolo delle “quote rosa”, strumento che ho sempre ritenuto indispensabile per affrontare il passaggio verso una raggiunta parità di genere che non avrebbe più bisogno di quote di alcun colore, succede che chi dovrebbe dare il buon esempio avrebbe in mente di fare una clamorosa retromarcia che metterebbe a rischio conquiste e passi in avanti raggiunti negli anni.
Donatella Porzi – Consigliere regionale dell’Umbria
Ho posto l’attenzione “sull’assurdo caso”, aperto dagli organi di stampa, che riguarda Cassa Depositi e Prestiti, dove vorrebbero far passare l’idea che non ci siano nomi di donne all’altezza di entrare nel nuovo Consiglio di amministrazione. Tanto che, tra continui slittamenti, da mesi si sta cercando una soluzione per procedere con un rinnovo del Cda che rispetti le leggi sulla rappresentanza di genere.
Tutto bloccato perché non ci sarebbero donne con un curriculum adatto a rappresentare una realtà cruciale dell’economia italiana, il cui Statuto prevede che le quote vadano per 2/5 al genere meno rappresentato, quindi alle donne?
O, piuttosto, il Governo (al quale spetta l’indicazione dei nomi visto che il ministero dell’Economia detiene circa l’83 per cento delle azioni CDP) per mantenere gli equilibri tra i partiti, che stanno proponendo solo candidati maschili, sta assecondando una visione maschilista ancora fortemente radicata, soprattutto quando si tratta di raggiungere posizioni al vertice? Tant’è che l’unica donna sulla quale, al momento, si troverebbero d’accordo, sarebbe stata proposta dal socio dì minoranza: le fondazioni di origine bancaria.
Per uscire dall’impasse, invece di impegnarsi a dare spazio alle tante donne competenti e di valore di cui è ricco il nostro Paese, così da raggiungere la quota del 40 per cento, gli azionisti starebbero pensando di aggirare l’ostacolo mettendo mano allo Statuto, ovvero prevedendo l’abbassamento della quota del Cda da due quinti a un terzo. Questo escamotage, per una lentezza di natura burocratica, li manterrebbe all’interno degli attuali vincoli di legge.
Per chi, come me, ha sempre lottato con forza contro ogni forma di disparità di genere, è impossibile rassegnarsi all’idea che il futuro di una società che detiene per conto dello Stato partecipazioni in molte aziende strategiche – come Eni, Tim, Fincantieri e altre ancora – debba giocarsi sul fronte di una lotta politica che rischia di azzerare tanti traguardi raggiunti per colmare i divari di genere nel management delle aziende, le cui posizioni dirigenziali restano ancora nella maggior parte occupate da uomini.
Le istituzioni, per prime, dovrebbero guidare il processo verso l’equilibrio di genere, confermando la direzione positiva intrapresa e rafforzando ulteriormente l’inclusione di genere ai massimi livelli decisionali. L’alternativa è tornare sempre allo stesso punto di partenza, come si rischia che avvenga in CDP se il primo governo a guida femminile permetterà che si torni indietro.